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Traffico illecito di cuccioli: mi chiamo Teodoro, sono un gattino e vengo dall’Est

Traffico illecito di cuccioli: mi chiamo Teodoro, sono un gattino e vengo dall’Est

traffico cuccioli dall'est europeo

Mi chiamerò Teodoro. Sono un gattino nato a Budapest due mesi fa. Mi hanno prelevato una fredda mattina di gennaio dalla gabbia in cui vivevo con mia madre e i miei fratellini e sbattuto dentro una scatola. Ho avuto molta paura, sofferto fame e sete… Ora sono in chiuso in una vetrina. C’è molto frastuono e tanta confusione intorno a me: gente che mi scruta, mi accarezza, se ne va. Forse il peggio è passato. Ma mi mancano carezze di vero affetto.

Mi chiamo Claudia.  Ho subito una serie di eventi difficili e sto rischiando di scivolare verso una depressione reattiva.

Poi, accade qualcosa. Passi casualmente davanti ad un negozio per animali e lo vedi:  bello, giocherellone. Ti penetra con gli occhi, scatta un feeling magnetico. Tu hai bisogno di lui, lui di te: non pensi a nient’altro. Entri. Lo “acquisti”.  Operazione forse poco etica. Ma lui è lì, t’intenerisce vederlo in gabbia: ti senti una sorta di eroina giunta apposta per lui. Per liberarlo. Ha il microcip, il libretto sanitario, ti assicurano arriverà anche un pedigree. Pensi siano sufficienti, come garanzie. Ti chiami “Teodoro”. Adesso hai un nome, una casa, le attenzioni che meriti.

traffico cuccioli dall'est europeo

Teodoro era uno scricciolo piombato nella vita mia e di mio marito come una meteora. E come una meteora era piccolo, ma capace di provocare un bagliore di luce intensissimo. Intensissimo, e da subito, era stato anche il rapporto che Teodoro aveva saputo instaurare. Già, perché era lui a tenere le fila: era allegro, dolce, tenero, ma volitivo. Erano trascorsi pochi giorni dal suo arrivo in casa, ma la Pet therapy aveva già fatto miracoli: mi sentivo molto meglio. Avevo ritrovato la voglia di scrivere, di uscire, di vedere gli amici.

Teodoro era dolcemente bisognoso di contatto e attenzioni: aveva preso l’abitudine di balzare sulla scrivania, proprio sotto al computer, e di abbandonarsi a lunghi sonni mentre lavoravo a un pezzo o  navigavo in internet. Ogni tanto si svegliava, sgranava gli occhioni color nocciola, mi fissava, faceva stretching. E riprendeva a sonnecchiare.

Aveva qualche problema intestinale: attacchi di diarrea lievi, ma ripetuti durante la giornata. «Se mangia molto, come mi riferisce, è normale», sentenziò sicura la veterinaria. Normale, invece, non fu la sua reazione al richiamo della vaccinazione trivalente, dieci giorni dopo il suo arrivo. «Si tranquillizzi: il vaccino non dà problemi, al massimo un leggero abbattimento», sosteneva la dottoressa mentre infilava la siringa nel corpicino recalcitrante. Una rassicurazione disattesa dopo un’ora circa: Teodoro cadde in uno stato di forte prostrazione, vomitò. Telefonai immediatamente alla veterinaria, che sbrigativamente mi liquidò assicurandomi che non poteva essere nulla di preoccupante.

Invece, il giorno dopo Teodoro continuò a  stare malissimo, sembrava “accartocciato”, come imploso. Era sabato e la veterinaria irreperibile. Le inviai anche uno Sms, che non ebbe mai risposta. Telefonai ad un veterinario che esercitava anche a domicilio. Lo visitò e mi consigliò di idratarlo con acqua, fruttosio e un  pizzico di sale. «Non si preoccupi, si riprenderà in fretta… Forse non era il caso di vaccinarlo: probabilmente ha bisogno di un trattamento sverminante. Certo che i gatti che arrivano dall’Est europeo hanno sempre dei problemi!», mi disse a corollario del tutto.

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Già: arrivava dall’Est, Teodoro, e non si sapeva quali traumi e imperizie avesse subito. Fortunatamente, nel giro di una settimana, era tornato vivace e voglioso di coccole. Persistevano i disturbi intestinali e non erano certo ascaridi o altri parassiti a determinarli, come testimoniavano le analisi delle feci. In più, aveva sviluppato delle lesioni all’interno delle orecchie: mi prescrissero una lozione medicamentosa ad ampio spettro, ma dopo due settimane il problema non accennava a regredire. Pensai di consultare un altro veterinario, che curava quasi esclusivamente con medicine non convenzionali. Mi consigliò un omeopatico per gli attacchi di diarrea, un fitoterapico per  rinforzare le difese, una pomata antibatterica per l’infezione all’occhio che intanto era scoppiata, una nuova dieta e integratori di vitamine e taurina per l’evidente gracilità. Nonostante tutto, Teodoro era un gattino stoico: accettava di buon grado le somministrazioni dei farmaci. Zampettava allegro da una stanza all’altra. Non smetteva mai di riempirmi di fusa,  di sguardi dolci, di dormite profonde alla base del computer intervallate da richieste di carezze.

Dopo un mese, le terapie sembravano aver funzionato, o almeno, contenuto i sintomi.  Teodoro era cresciuto, anche se pesava ancora poco in rapporto all’età. I problemi intestinali si erano ridimensionati, ma non totalmente guariti. Le lesioni alle orecchie, ogni tanto, si riacutizzavano. Erano ombre. Ombre  di qualcosa che latitava nell’attesa di avvilupparci e divorarci. Lo percepivo,  ma non volevo e non potevo crederci.

Accadde all’inizio di aprile, ancora di sabato: Teodoro, quella mattina, era particolarmente affranto. Nel tardo pomeriggio sprofondò in un sonno profondissimo. Non rispondeva ai richiami, alle coccole. Scottava. Chiamai d’urgenza un altro veterinario, consigliato  da un vicino di casa. Arrivò, gli provò la temperatura: 41,5 gradi. Tanti, troppi. Gli fece un’iniezione di cortisone, una di antibiotico. Consigliò di proseguire la cura antibiotica:il  pancino era leggermente gonfio e probabilmente aveva una gastroeneterite. Dopo circa due ore la temperatura era scesa a 39. Ma il giorno dopo era di nuovo a 40 gradi e più. Da allora, la febbre divenne costante. Si abbassava solo in rari momenti e in quei rari momenti lui tornava ad essere quello di sempre: affamato, giocherellone, affettuoso. Nel frattempo, era stato sottoposto ad esami del sangue: i valori non evidenziavano nulla che giustificasse la febbre persistente. Dopo una settimana, il veterinario gli cambiò l’antibiotico, nella speranza che avesse sviluppato una resistenza a quel principio attivo, magari per qualche cura inappropriata subita nel suo oscuro passato. Non funzionò. E non era un buon presagio. Neppure quel pancino che stava lentamente, ma inesorabilmente, aumentando di volume. «Dobbiamo effettuare un’ecografia e un prelievo del liquido che sembra esserci nell’addome. c’è la possibilità si tratti di PIF, peritonite infettiva felina. Una malattia virale  per la quale, purtroppo, non esistono cure…», disse mestamente.

Si sottopose all’ecografia e al prelievo del liquido senza opporre troppe resistenze. Era coraggioso e paziente, Teodoro. Per me e mio marito, invece, fu straziante.  Il responso lasciò qualche, seppur timido, dubbio: il liquido non era abbastanza vischioso, quindi ricco di proteine, come accade solitamente in questa malattia. Ci aggrappammo a questa speranza. E alla sorda esigenza di non credere alla  sua condanna a morte.

Ma come poteva aver contratto la PIF? Viveva esclusivamente in casa, non aveva contatti con altri animali…

Purtroppo, è una malattia carogna: in soggetti soprattutto se così giovani, il virus può rimanere inoffensivo, anche dalla nascita, e per qualche motivo – stress, sofferenze di varia natura – mutare e diventare patologico. Ma solo dopo i quattro-cinque mesi d’età. E in Teodoro, puntualissimo, questo sembrava essersi verificato. Tutti i problemi che aveva avuto fin dal suo arrivo probabilmente erano le avvisaglie di una lotta contro quel virus maledetto contratto nell’allevamento ungherese, o durante il trasporto, o addirittura in negozio. Lui stesso, probabilmente, aveva contagiato altri gattini che, sperabilmente, come accade nella maggioranza dei casi (circa 85%) non avrebbero mai sviluppato la malattia. Ma a chi aveva lucrato su di lui, chi l’aveva strappato alla madre troppo piccolo, costretto a un viaggio assassino tra Budapest e Italia, probabilmente “rinvigorito” con il cortisone per renderlo presentabile in negozio, tutto questo non importava affatto.

Un mese è durato lo stillicidio: un mese durante il quale ha sopportato di tutto, Teodoro, senza mai lamentarsi. Era impacciato nei movimenti, perché la pancia era ormai enorme, ma quando la febbre si abbassava temporaneamente tornava quello di sempre. E ancora tentava di salire da solo con un balzo sulla scrivania, per starmi vicino.

Da una settimana mangiava pochissimo, erano necessarie delle flebo. Pesava due chili, ma uno, o forse più, era di liquido contenuto del pancino. E soffriva di una terribile stipsi. Avrei fatto di tutto pur di strapparlo alla morte e proprio per questo cieco desiderio ho compiuto un errore che non riesco a perdonarmi. Quando ormai il quadro clinico era chiaro, l’ho condotto in una nota clinica veterinaria del Nord Est per farlo visitare da un veterinario esperto in questa malattia e sottoporlo ad uno speciale test per la ricerca del coronavirus, l’unico, mi assicurò lo specialista, in grado di confermarmi che si trattasse effettivamente di peritonite infettiva felina. E se non lo fosse stata? «Allora, probabilmente si potrà curare», fu la risposta del medico al telefono.

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Ubriaca di questa speranza, sono partita con il mio fagottino per 120 km di viaggio. La clinica si presentava perfetta, all’apparenza: quasi un ospedale iperattrezzato “per umani”. «Bisognerebbe ricoverarlo per almeno una-due notti: dobbiamo fare una serie di test e intanto cerchiamo di rimetterlo anche un po’ in sesto. è molto deperito», disse il medico cautamente possibilista. Non avrei mai voluto separarmi da lui, ma cedetti alla lusinga di rivederlo un po’ in forma. Ritornai a riprenderlo dopo due giorni: era irriconoscibile. Gli avevano completamente rasato il pancino, che così sembrava ancora più enorme, forse sedato per sottoporlo a flebo – aveva lo sguardo completamente assente -.  In più lo avevano in parte svuotato di liquido addominale: pratica totalmente superflua e anzi dannosa,  poichè, almeno questo è noto a qualsiasi veterinario,  il liquido si riforma prontamente, privando ulteriormente i tessuti dell’organismo di proteine. Il responso dell’ – inutile, ma costosissimo – esame “iperspecialistico”? Ovviamente, PIF! Fuggii dalla clinica stordita, incredula, piena di rabbia e di dolore, dopo aver pagato la salatissima parcella. Mi sentivo raggirata e  in colpa tremenda per aver consegnato Teodoro a qualcuno che, ulteriormente, aveva lucrato su di lui. Ancora, forse, più vigliaccamente.

Lo riportai a casa.  La notte fu un incubo ad occhi aperti: piangeva disperatamente, ininterrottamente, come non aveva mai fatto prima, con miagolii strozzati, fortissimi. Dovetti arrendermi. Telefonai, per l’ultima volta, al veterinario. Arrivò alle 9 del mattino del 30 aprile. Liberò Teodoro dal dolore.

Mi chiamavo Teodoro. Sono vissuto 5 mesi. Sono stato maltrattato e sfruttato. Ma anche tanto amato. Avevo una voglia disperata di vivere, ma non ce l’ho fatta.

Mi chiamo Claudia. Un anno fa sono entrata inconsapevolmente nell’inferno del traffico di cuccioli importati, spesso già malati, dall’Est. Ho incontrato anche qualche veterinario “leggero” e non solo. Ma ho anche conosciuto e amato un gattino splendido. Volevo strapparlo alla morte, ma non ce l’ho fatta.

UN TRAFFICO IGNOBILE

Sarebbero migliaia i cuccioli di cani e gatti di razza che alimentano annualmente il traffico di animali allevati e trasportati “a basso costo”. Provengono soprattutto dall’Est europeo e sono strappati alla madre dopo poche settimane di vita.  Arrivano in Italia imballati come un elettrodomestico, trasportati in furgoni, ammassati, spesso senz’acqua, senza cibo, senz’aria. Molti cuccioli muoiono durante il trasporto o subito dopo l’arrivo. Quelli sopravvissuti spesso si ammalano poco dopo: soffrono di cimurro, gastroenterite virale, malattie facilmente trasmissibili, non di rado a decorso mortale. Nel frattempo, vengono resi “presentabili” per essere esposti in vetrina con iniezioni di cortisone, eccitanti o altri farmaci somministrati col supporto di veterinari conniventi o abusivi. Possono arrivare, di preferenza, in negozi che vendono “animali di tutte le razze” anche su richiesta o fiere itineranti, pagati a prezzi medio-bassi, rivenduti a costi ben più alti.  Ecco alcuni consigli per non alimentare inconsapevolmente questo mercato ignobile.

  • Se si è scartata l’ipotesi di adottare il cucciolo in canile o gattile e si decide di acquistarlo, preferire allevamenti “monorazza” che si possano visitare e dove sia presente la madre e, possibilmente, anche il padre.
  • Se si opta per il negozio, pretendere il preciso indirizzo di provenienza del cucciolo, il libretto sanitario compilato con data di nascita, vaccinazioni e trattamenti antiparassitari già effettuati.
  • Diffidare dalla richiesta di un ulteriore esborso di denaro per procurare il pedigree attribuito: l’animale regolarmente iscritto ai libri genealogici lo è dalla nascita. Da consultare, on line:  www.animali.com/cuccioli.htm; www.infolav.org; www.animalisti.it.

Pubblicato l’1 aprile 2006 su “D -La Repubblica delle donne” https://d.repubblica.it/?ref=RHHD-M , inserto del quotidiano “La Repubblica”.

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