Come scegliere lo psicologo ok
Lo dicono le statistiche: la richiesta di aiuto psicologico proviene da ambiti sempre più differenziati, incluso quello di imprese e organizzazioni costrette a misurarsi con i rapidi mutamenti sociali in atto e con una società sempre più melting pot. Ma, soprattutto, sono in aumento le richieste legate a criticità emergenti e contemporanee, come la gestione dei rapporti in “famiglie ricostruite” o con familiari colpiti da malattie croniche. Morale: nessuna battuta d’arresto per la professione di psicologo. Al contrario, i neo-abilitati crescono al ritmo di 5000 l’anno in media e attualmente sono circa 95.000 gli iscritti all’ordine. Ma allo stesso tempo si sta palesando con maggior forza il rischio per i soggetti più vulnerabili, magari perché economicamente più fragili, di affidare il loro disagio alle cure di figure poco competenti o, nella peggiore delle ipotesi, di veri e propri truffatori “eccitati” da un business sempre più appetitoso.
Il problema è anche un altro: se riconoscere uno psicologo o psicoterapeuta abilitato e giusto è semplice (fanno fede le iscrizioni all’ordine: basta consultare gli elenchi on-line delle varie regioni), più arduo è individuare quello “che fa per noi”. Perché, come disse Jean Piaget, famoso psicologo, pedagogista e filosofo svizzero: “Sfortunatamente per la psicologia, tutti pensano di essere psicologi” e anche la persona comune a volte è convinta di avere una sufficiente “competenza psicologica” capace di indirizzarla verso il professionista giusto. «Ma non sempre si ha l’esperienza per capire come scegliere, tra le tante figure, quella in grado di aiutarci concretamente. Per questo non è raro intraprendere e portare avanti uno o più percorsi senza risultati apprezzabili», osserva Emiliano Lambiase, psicoterapeuta, coordinatore dell’Istituto di Terapia Cognitivo-Interpersonale (www.itci.it).
L’ABC preliminare per una scelta fruttuosa: oltre ai titoli, verificare che il professionista sia esperto nel problema che si desidera risolvere e competente per affrontare il livello di sofferenza e gravità del disagio: un’occhiata al curriculum fornisce un’idea, il passaparola la conferma. Fondamentale la sua trasparenza nel modo di porsi. «Deve essere chiaro, spiegare dettagliatamente il metodo di lavoro, comunicare i tempi, anche se solo indicativi, della terapia, le regole e le condizioni concordandole e chiedendo la vostra collaborazione », consiglia Lambiase.
Affinità elettive
Il successo del percorso dipende in buona parte dall’alchimia che nasce tra paziente e terapeuta. Perché la psicoterapia è anche (e soprattutto), una relazione e come ricorda Carl Gustav Jung: “L’incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche; se c’è una qualche reazione, entrambi ne vengono trasformati”. Spiega Lambiase: «Se non s’instaura un buon rapporto diminuiscono sensibilmente le possibilità di ottenere benefici, anche se la strategia è perfetta. Il consiglio è di attendere qualche seduta prima di proseguire, ossia il tempo necessario per confermare se ci si sente davvero a proprio agio, non giudicati, ma compresi». E se il feeling non scatta? «Meglio esprimere le proprie perplessità al terapeuta e concordare un tempo limite entro il quale decidere se proseguire il lavoro insieme oppure concluderlo, pur considerando che i tempi di “guarigione” non sono definibili e preventivabili», dice Lambiase.
Soluzioni mirate
Meno semplice valutare a priori il percorso “ideale”. “In linea di massima, se si vuole provare a superare una perdita e/o risolvere dei sintomi emozionali e comportamentali con soluzioni mirate e immediate – i disturbi d’ansia o depressione, gli attacchi di panico, alcune fobie, per esempio -, senza lavorare più a fondo sulla personalità, funzionano bene le terapie di tipo cognitivo (forniscono strumenti per reagire in modo differente e più efficace alle situazioni problematiche) o comportamentale (aiutano ad apprendere come pensieri e credenze possano contribuire a creare una visione distorta delle situazioni, scatenando stati d’ansia, depressione, rabbia), oppure cognitivo-comportamentale (integrazione di elementi di entrambi gli orientamenti). Queste terapie hanno la fama di essere “brevi”, ma i tempi dipendono da molte variabili (la gravità del problema, la motivazione del paziente, lo stabilirsi di una buona relazione terapeutica): in linea di massima il trattamento varia dalle 20 alle 40 sedute (dai 3 ai 12 mesi circa). Info: www.sitcc.it. Le dipendenze, invece, richiedono generalmente percorsi più lunghi, in media almeno un paio d’anni, e spesso terapie diverse: individuale, di gruppo, di coppia, di famiglia e farmacologica. Un rapporto difficile in famiglia, per esempio con un figlio, richiede una buona valutazione iniziale per capire, oltre all’entità del problema, se è necessaria una terapia individuale per il ragazzo oppure di coppia o familiare, considerato che a volte il “nodo” non risiede nel figlio ma nei genitori.
I non-tempi della psicoanalisi
Chi desidera approfondire aspetti inconsci e che vanno oltre ai sintomi del disagio esistenziale può affidarsi alla psicoanalisi, che oggi contempla anche percorsi più limitati nel tempo, come nella psicoterapia psicodinamica breve (info: www.istdp.it), con incontri meno frequenti e in un arco temporale più ridotto (anche “soli” 2-3 anni) rispetto al trattamento psicoanalitico classico, che può durare anche un decennio o più. D’altro canto, come ebbe modo di osservare Sigmund Freud: “In psicoanalisi le cose sono solite essere un po’ più complicate di quel che vorremmo. Se fossero così semplici, non ci sarebbe forse stato bisogno della psicoanalisi per portarle alla luce”.